The Songs For The Deaf, un disco dal titolo quasi ossimorico prodotto da una band, che ha fatto della surrealità un marchio di fabbrica. I Queens Of The Stone Age sono riusciti a estrapolare dalle loro menti malate le loro visioni distorte del nostro mondo e trasporle in un concept musicale che nulla ha da invidiare alle opere psichedeliche del passato. Basti pensare al fatto che l’idea stessa del disco venne in mente a Josh Homme (chitarra e voce) mentre vagava senza meta con la sua automobile, accompagnato esclusivamente dai ronzii delle frequenze che la sua autoradio captava in maniera randomica e da non meglio precisati speaker radiofonici messicani (che potrete ascoltare bofonchiare parole in spagnolo per quasi tutta la durata del disco).
La prima traccia, Millionare è forse la più cattiva. Urla arrabbiate su un riff di chitarra che non è da meno.
La seconda traccia, No One Knows è anche il primo singolo estratto. Bella, suadente con un ritornello un po’ malinconico ed un breakdown di basso da far venire i brividi. L’assolo che lo segue, con i suoi bending quasi dissonanti non ha nulla da invidiargli.
Dopo la coriacea First It Giveth, terza traccia di questo capolavoro, comincia The Song For The Dead. La traccia esplode in un arcigno riff di chitarra che piacerà anche alle orecchie degli ascoltatori più “Heavy”. Da notare i magnifici pattern di batteria di un Dave Grohl ancora in formissima, che raggiungeranno il loro apice alla fine del pezzo che si concluderà con un rush di doppia cassa e rullante che nessun fan dei Nirvana si sarebbe mai aspettato potesse essere partorito dalle bacchette dell’ex batterista di questi ultimi.
The Sky Is Fallin. Il cielo crolla su di noi, chiudete gli occhi e guardatelo piombarci addosso, con cupe distorsioni e lamenti in falsetto, tra canti lascivi e quinte ripetute e ammalianti.
Comincia Six Shooter, una brevissima traccia urlata in un guizzo di rabbia che finisce inaspettatamente presto. Troppo presto.
Si discosta come quasi infastidita per lasciar cominciare Hangin’ Tree. Una mistica progressione di accordi minori
sicuramente partorita in chissà quale momento catartico.
A questo punto del disco non ci resta altro che lasciarci trascinare dal flusso musicale del secondo singolo estratto. Go With The Flow
comincia con un riff rockeggiante e potente che ci introduce ad un ritornello più malinconico che ci rimarrà impresso nel cervello
e canticchieremo nella nostra testa anche quando il pezzo sarà già finito.
Dopo la suadente Gonna Leave You comincia la blueseggiante Do It Again, con i suoi shuffle distorti che ci faranno scuotere ed agitare la testa fino a quando, dopo le solite farneticazioni messicane, una lieve nota di basso ci introdurrà a quella che è forse la mia traccia preferita del disco.
God Is In The Radio. La traccia è più lenta, comincia accompagnata da un’accenno di piano. Un viaggio onirico tra pause e fade magici che ci introdurranno ad un bellissimo assolo di chitarra, fiore all’occhiello di questo piccolo omaggio al nichilismo che ci lascerà in fade out, così come ci ha accolto.
Un altra traccia, un’altra canzone d’amore. Si sempre la solita canzone d’amore. Another Love Song introdotta da un ispanico lead di chitarra ravviverà il ritmo dopo la lenta traccia precedente, ma è meglio non cominciare ad agitarsi troppo perché l’inquietudine verrà ad abbracciarci quando la title track (A Song For The Deaf) di questo disco verrà ad accarezzarci la schiena.
Un pezzo quasi macabro il cui riff principale è sorretto da dei potentissimi inserti di tom e dalla voce lasciva di Josh Homme.
Fanno capolino dei brevi assoli di chitarra che farciscono sapientemente questo pezzo che si interrompe solo per lasciare spazio al basso di Nick Oliveri che riprende da solo il tema principale. In sottofondo sovra incise urla di disperazione che insieme ad un
cupo feedback porranno fine a questa liturgia dell’assurdo.
Ed ecco un’incantevole chitarra acustica, che malinconicamente bacia le nostre orecchie. La chitarra di Mosquito Song.
Una canzone votata all’annullamento dell’essere umano (We are all food that hasen’t died…). Una canzone che va via via riempiendosi di strumenti, dal pianoforte ad un’altisonante sezione di ottoni che precederanno un breve assolo di chitarra classica che metterà sull’attenti ogni singolo pelo del nostro corpo.
Si avvicina la fine ed arpeggio dopo arpeggio questa traccia porrà fine a questo viaggio introspettivo.
Si un viaggio. Perché questo disco è stato partorito durante un lento girovagare senza meta. Ed è così che va ascoltato. Prendetelo e inseritelo nella vostra autoradio. Ingranate la prima e partite
verso l’ignoto. Questo disco sarà la perfetta colonna sonora di quei momenti in cui spesso si viene costretti
a fare i conti con il proprio spirito interiore. Un disco audace che senza fronzoli vi proietta in un limbo spirituale dal quale potrete riuscire a intravedere i confini della vostra anima.
Anche se musicalmente ben orchestrato, non è il mero arrangiamento tecnico a fare di quest’opera un capolavoro,
bensì il mistico messaggio epicureo che esso scolpisce in basso rilievo sulle pareti della nostra mente, lasciandoci così
esterrefatti, stupiti e con soltanto un’unica via d’uscita: Rimetterlo da capo e ricominciare a viaggiare.
SPINZO
9/10